sabato 31 agosto 2013

Fulvio Bressan: la forma e il contenuto





Ho incontrato e conosciuto i coniugi Bressan, Fulvio e Jelena, quest'anno alla rassegna Vinnatur di Villa Favorita. Quella ventina di minuti passata a chiacchierare con Fulvio mi è bastata per capire che avevo davanti sì un vulcano, sì un fiume in piena, sì un personaggio scomodo, impulsivo e ingombrante – anche fisicamente – ma soprattutto avevo di fronte una persona che diceva quello che pensava, senza diplomatismi, senza acrobazie linguistiche e inutili perifrasi. Avevo di fronte un individuo che appartiene a quella specie, in via di estinzione da mo’, che va sotto il nome di Persone Vere.

Da alcuni giorni, stanno scorrendo fiumi di inchiostro in riferimento alle esternazioni fatte da Fulvio, sul suo profilo facebook, relative alla ministra Kyenge e ad altre personalità politiche.
Si è scritto e letto di tutto, e come succede, abitualmente, nel nostro Belpaese, le opinioni e i giudizi dividono e spaccano il popolo eno-italico – ma non solo enoico - e perfino da oltreoceano è giunta la scomunica senza appello. Tra i tanti commenti, una larga parte - per non dire la quasi totalità - impalma l'idea del boicottaggio, a 360 gradi, dei suoi vini. La mission è: non parlarne più, evitare di recensirli e soprattutto non comprarli mai più.

Ora, ammesso che Fulvio l’abbia fatta fuori dal vaso e che non saprebbe che farsene della mia difesa – né tantomeno intendo farlo, non ne sarei capace e Fulvio ha sempre dimostrato di sapersi assumere i suoi oneri - mi solletica il desiderio, di illustrarvi alcune constatazioni che possano stimolare riflessioni pacate e non polemiche - sia chiaro - che altrimenti tradirebbero il mood di questo blog.

Esco, volutamente, dal caso di specie, per sottolineare – a livello generale - come ormai noi italiani – meglio, italioti - da troppo tempo guardiamo alla forma, solo a quella, senza accorgerci che in tal guisa perdiamo di vista sempre – sistematicamente e irreparabilmente – il contenuto.
La parola d’ordine è, ormai, una sola e imperante: essere politicamente corretti. Tutto il resto conta poco, anzi zero. Ci arrampichiamo sugli specchi, coniamo nuovi vocaboli per descrivere situazioni e condizioni umane, senza poi fare nulla in concreto.
Un esempio su tutti? L'espressione diversamente abile per descrivere una persona sfortunata, che fino a qualche tempo fa veniva chiamata handicappata. Provate a frequentare le stazioni ferroviarie, le metropolitane, le pensiline di attesa dei mezzi pubblici, gli uffici pubblici, i marciapiedi - l’elenco continuatelo voi - delle nostre città - per constatare con i vostri occhi quali siano i salti mortali che affrontano, quotidianamente, questi soggetti per poter accedere a quelle strutture ed esercitare i loro diritti. Circostanze disgustose e umilianti, imbarazzanti e deplorevoli, indegne di un paese civile. Si domandi a costoro, se preferiscono essere chiamati “diversamente abili” e incontrare sul loro cammino ostacoli di ogni genere, oppure preferirebbero continuare ad essere chiamati “handicappati”, pur di aver accesso, senza difficoltà alcune, in tutte le situazioni che ho appena esposto.

La forma e il contenuto.

Altro esempio: a troppi italiani non importa di essere vessati, da tempo immemore, da una classe politica, impunita, che spreca, offre lavoro in nero, addirittura, ai suoi portaborse, ruba – pure qui l’inventario continuatelo voi - in una parola ci infinocchia, senza alcun ritegno. Troppi italiani – quorum non ego - si preoccupano che la sodomizzazione avvenga in modo politicamente corretto.

La forma e il contenuto.

Mi torna alla mente il film “Il mio nome è Nessuno” dove Nessuno racconta a Jack Beauregard la favola dell’uccellino (tralasciando la parte finale, relativa alla morale). Pensiamo alla “forma-gesto” della vacca ed al “contenuto-gesto” del coyote.

Potrei proseguire ancora, ma mi fermo. Non prima, tuttavia, di aver scelto - e di tenermi ben stretto - Fulvio Bressan, con il contenuto, in primis, delle sue bottiglie, seguito dal contenuto delle sue dissertazioni, senza attribuire troppo aggravio alla forma espressiva, delle volte, indubbiamente, fuori scala. Stiano lontani da me i farisei ed i talebani del politicamente corretto.


(immagine tratta dal sito aziendale)


giovedì 29 agosto 2013

Doc Rosso di Montalcino 2004 Poggio di Sotto





Vi risparmio il pistolotto su Piero Palmucci, fondatore di questa giovane azienda (1989) diventata nel volgere di breve tempo riferimento assoluto per il Sangiovese; così come evito altri bla bla - non ultimo il recente passaggio di proprietà - giacchè è impensabile che un appassionato enoico non conosca Poggio di Sotto, anche solamente per sentito dire.
                 
Ti conquista già con quel rubino luminoso e trasparente. Nel calice rivela eleganti profumi di rosa, prugna e mora che si mescolano a tocchi ferrosi, di tabacco e sottobosco. Cenni speziati caratterizzano, in chiusura, questo ampio e scrupoloso disegno olfattivo.

Dati questi preamboli, il sorso non potrebbe (e non lo è davvero) essere da meno. Freschezza integra, succosità, coerenza, struttura pregevole, vena acida raffinata, tannino sferzante e peso dell’alcol calibrato, segnano, in modo inequivocabile, l’assaggio che termina - dopo persistenza davvero lodevole - su ritorni aromatici che riflettono sia le note fruttate, sia le spezie.
Rosso di Montalcino o Brunello???

Un neo? Verrebbe da dire il prezzo, perché si tratta di una bottiglia molto costosa – non meno di 35 euri a scaffale - forse il RdM più costoso che esista. Va da sè che con queste cifre si acquistano già ottimi Brunello e gli esempi si sperperano. Tuttavia non è mia intenzione spacciare il costo per imperfezione, anzi. Si tratta di trovare un punto debole ad un vino che non concede, in buona sostanza, appigli cui aggrapparsi per muovere obiezioni rilevanti, ben sapendo, comunque, che la qualità ha un suo valore che si paga.
Ritengo, da sempre, il concetto di costo - non solo di un vino ma di un bene in generale - attenga, come afferma qualcuno, al “diametro della tasca” di ognuno di noi, alla nostra “attitudine” alla spesa. Qui voglio sottolineare l’elevata qualità della bottiglia, mantenendo su piani nettamente differenziati il prezzo e la gioia. E qui di gioia ce n’è parecchia, credetemi.





domenica 25 agosto 2013

Rifugio Meira Garneri @ Sampeyre





Provincia Granda, alta Valle Varaita, vallone di Sant’Anna a 1850 metri. Appena giunti a Sampeyre, abbandonate la provinciale e imboccate la stradina a sinistra, percorretela per circa dieci km, direzione Colle di Sampeyre. Volendo, la meta si guadagna pure a piedi, servendosi delle due mulattiere che partono una da Borgata Calchesio – camminata di due ore – l’altra, più breve, da Borgata Sodani, un’ora. E per l'inverno? Seggiovia, ciaspole, motoslitta e gatto delle nevi. Ça suffit?
Il rifugio, all’interno di un bosco e attorniato da prati coltivati a fieno, è una vecchia baita, recentemente ristrutturata, che dispone, oltre al ristorante, anche di sei camere.


 

Qui, da pochi mesi (maggio) è possibile apprezzare la mano capace e talentuosa del ventottenne Juri Chiotti che vanta esperienze etoilées. Stesso discorso per Alessandro, 24 anni, il suo "socio" in sala.





Il menù è fatto di pochi piatti, ma giusti e con ricerca certosina delle materie prime, a partire dalle verdure - tutte di stagione - che provengono dall’orto del papà di Alessandro. Noi, affamati, si sceglie il Lasciate fare a noi. Mai scelta si rivelò più azzeccata.






Si comincia con ottimi antipasti misti, che arruolano: pomodoro gratinato, peperone con bagnet vert, vitello tonnato e tumin del Mel patate e aioli, quest'ultimo il tributo di Juri alla tradizione occitana.



 
Questo vitello tonnato, encomiabile, merita il particolare (meriterebbe anche un altro fotografo).



Ci tiene compagnia e ci delizia questo Pierre Morey, sempre una garanzia e letteralmente sifflé.



I ravioles de Blins compatti ma morbidi.




Agnolotti del plin, si saliva (voce del verbo salivare) al solo vederli.



 
Stinco di agnello roaschino frabosano (razza autoctona) su ratatouille di verdura e polenta.
Scarpetta e Applausi, pliiz.




Panna cotta al fieno con riduzione di bacche di sambuco.

Il dolce, completando un viaggio gustativo di prim'ordine, è un vero e proprio capolavoro, dove la morbida consistenza della panna cotta è intrisa e sublimata dai rimandi delle erbe - su tutte una nitida camomilla di montagna - raccolte da Juri nel prato antistante il rifugio. 

Questa è alta cucina, con spazi per crescere ancora. Qui ho trovato rigore e concretezza, metodo e attenzione, semplicità e tradizione, e tanta, ma tanta passione. Tempi di attesa corretti - sicuri sincronismi tra sala e cucina – si integrano alla perfezione con un servizio professionale ma cordiale, discreto ma amichevole e mai affettato. La carta dei vini – per ovvie ragioni in fieri e con ricarichi onestissimi - annovera già una nutrita schiera di produttori bio, dinamici e rispettosi della terra.

Il prezzo di questa tavola lo avete letto, il pregio dei piatti anche. Alessandro mi ha parlato di sfida. Si può fare cucina di qualità ad un prezzo davvero accessibile? Yes, they can.
State ancora leggendo?




venerdì 23 agosto 2013

Igt Vigneti delle Dolomiti Bianco Manna 2010 Franz Haas





Si tratta del vino dedicato da Franz a sua moglie – ne riprende il cognome – ed è un assemblaggio di Chardonnay, Sauvignon bianco, Riesling e Traminer aromatico, quest’ultimo da vendemmia tardiva.

All’occhio è giallo dorato splendente, mentre l’olfatto cattura, in primis, per l’aspetto aromatico; poi s’insinua e si fa largo la parte fruttata – tropicale ma non solo - con pesca, ananas, banana e pera. Il Sauvignon bianco si fa carico dell’espressione vegetal-erbacea attraverso la foglia di pomodoro, basilico, menta e rosmarino.

Entra in bocca con grande freschezza e i rimandi con l’olfatto sono allineati. Ha struttura da vendere, ben sorretta dall’impianto acido, con scorrevolezza di beva. Il finale è durevole, con una forte impronta minerale.

Solitamente non stravedo per questi blends dove gli attori, spesso, sono troppi e si offuscano o si arruffano a vicenda. Stavolta è differente e questo sorso mi ha convinto.





lunedì 19 agosto 2013

Igt Romangia Renosu Bianco Tenute Dettori





Questa é una piccola azienda sarda - siamo in località Badde Nigolosu in provincia di Sassari – che segue rigorosamente i dettami dell'agricoltura biodinamica, fa parte del manifesto Triple “A” ed é membro della Renaissance des Appellations. Il millesimo non é indicato essendo figlio di più annate. Questo assemblaggio di uve Vermentino e Moscato di Sennori affina su lieviti indigeni da due a tre anni in vasche di cemento, senza subire alcuna chiarifica, né filtrazione, né aggiunta di anidride solforosa.

Mi piace il giallo dorato luminoso che trovo nel calice. Alla prima snasata balza subito l’odore di mare e di sale mentre fa capolino, sullo sfondo, una nota dolce. Il ventaglio aromatico é completato da fragranze di frutta gialla matura, macchia mediterranea, intrecciate a miele e note erbacee, con fieno in evidenza.

Al palato é fresco, sapido e  molto aromatico - Moscato docet - con una sostanziale coerenza con il naso e una piacevole nota speziata. L'ingresso salato ha come contraltare la presenza di un residuo zuccherino - ancora lui, il Moscato - che, confesso, inizialmente mi spiazza parecchio, ma sorso dopo sorso entro poco alla volta in sintonia, aiutato anche dalla acidità che sostiene e facilita una beva già accattivante, tuttavia non ruffiana. Peso dell'alcol minimamente avvertito, nonostante i 13.5 % dell'etichetta. Se proprio voglio trovare un piccolo difetto, gli rimprovero un finale leggermente corto, ma a questi livelli qualitativi ed a questi prezzi - otto/nove euri - costituisce un dettaglio ampiamente trascurabile. Ad occhi chiusi avrei detto Alsazia e non Sardegna. Una bella scoperta, una gradevole bevuta che ripeterò quanto prima.

  

giovedì 15 agosto 2013

Aoc Champagne Grand Cru Blanc de Blancs Extra Brut s.a. Bonnaire





A cavallo tra luglio e agosto è, solitamente, il periodo in cui ci si ritrova, con più tempo, tra amici crapuloni a gozzovigliare. E, solitamente, a livello liquido tengono botta le bollicine, il più delle volte – per non dire quasi sempre – quelle della grandeur d’Oltralpe. Ecco svelato l’arcano della presenza un po’ più frequente di posts sullo Champagne. Tra un sorso e l’altro succede di prendere due appunti due e, sempre senza prendersi troppo sul serio, tra una boutade e l’altra, si tirano giù alcune impressioni giusto per.

Il nostro di oggi è un flacone estremamente interessante, sotto tutti gli aspetti, non ultimo quello degli sghej. O meglio, più che la boccia in sé, è l’azienda ad essere di elevato profilo, ovviamente già dai prodotti basici.
Siamo a Cramant, uno dei 17 villaggi classificati Grands Crus e Bonnaire si trova giusto qui, fin dal 1932. Oggi Jean Louis coltiva qualcosa come 22 ettari dove lo Chardonnay logicamente fa la parte del leone - siamo nella Côte des Blancs - con il 62 percento, completano 25 percento di Pinot Noir e dieci di Pinot Meunier. La produzione ruota intorno alle duecentomila bottiglie.

Questo prodotto si colloca nella fascia medio-alta dell’azienda e fino a qualche anno fa usciva come zero dosage poi, come mi ha confessato lo stesso Jean Louis, obtorto collo, si è passati a questa definizione – extra brut – giacchè la gente un po’ si “allarmava”, si insospettiva, ma il prodotto è rimasto quello.

Nel calice è oro luminoso con tenui bagliori verdi ed effervescenza fine, continua, raffinata. Molto intenso al naso che si apre su note di crema pasticcera e frutta secca, agrumi e camomilla, miele e cacao. Emerge, seducente, la nota gessosa – la craie – che conferisce una cifra notevolissima di mineralità.

L’impatto gustativo è segnato da bella cremosità, verticalità e freschezza non comuni e lama acida invero affilata. Frutta e fiori in gran spolvero – completa la rispondenza con agrumi e camomilla - una vivida nota speziata e soprattutto la mineralità che, rivestendo un ruolo assai influente, apporta struttura e sapidità al sorso. Lunga PAI per una bevuta scioltissima e gratificante.
Se resistete, dopo la sboccatura, lasciatelo riposare un pò in cantina, perchè gli giova parecchio stare à l'abri de la lumière, come sostengono i cugini.

Vi auguro un vinoso Ferragosto.



lunedì 12 agosto 2013

Doc Alto Adige Pinot Bianco Vorberg Riserva 2010 Cantina Terlano





Questo Pinot Bianco, proveniente dal cru Vorberg, visivamente ha un bel giallo paglierino lucente con lampi verdognoli.

Al naso è fine, sfaccettato e abbastanza elegante. Scopro sentori di biancospino, ginestra e camomilla che si accompagnano a frutta gialla – pesca, albicocca, melone e pompelmo – e non mancano accenni di pera e miele con un che di minerale.

Questa bella trama olfattiva, purtroppo per le mie papille, trova poco o punto riscontro al palato. All’assaggio, infatti delude. L’ingresso è molto morbido – più flaccido che morbido - con esigua e insufficiente acidità che non sopporta e supporta l’importante tenore alcolico (13,5%). Ne scaturisce un sorso stucchevole, poco armonico e di limitato equilibrio nelle sue componenti, che subordina la beva all’attesa di un qualcosa che la solleciti. Attesa...disattesa.
Decisamente meglio al naso che in bocca. Non escluderei boccia sottoperformante.


giovedì 8 agosto 2013

Aoc Champagne Brut Nature Sans Soufre s.a. Drappier





Aube, Côte des Bar, Urville. Questi sono i «terroni» della Champagne. La parte sud, molte volte reputata, ingiustamente, minore ma dove i nordisti si riforniscono da sempre, a piene mani, di Pinot Noir per strutturare e/o completare i loro assemblaggi.

Numericamente Drappier è il più grande produttore di questa fascia della Champagne – attorno al milione bottiglie - con un centinaio di ettari coltivati prevalentemente a Pinot Noir. Suggerita una visita alle sue cantine cistercensi del 13° secolo ed ai suoi super formati del Carte d’Or – si arriva fino ai trenta litri del Melchisedech.

Questo brut nature è declinato in due versioni: con o senza solfiti. Io ho scelto quella priva. Dunque Pinot Noir in purezza, solo il succo della prima spremitura - la cuvée - non dosato e non filtrato, con sboccatura marzo 2012.

Giallo dorato nel calice con una effervescenza piena, abbondante ma rotondotta di dimensione. Al naso cattura per freschezza, con nocciole, agrumi – forse un pelo troppo citrino – la pera Williams e una robusta mineralità.
Al gusto convince per cremosità, secchezza e droiture. Piacevole la coerenza con la trama olfattiva, cui si associa una precisa nota di frutta secca. La spalla del Pinot Nero ed una solida ventata sapida e minerale qualificano un sorso la cui persistenza è alquanto lunga. Rigorosa pulizia di esecuzione per una piacevolezza di beva trascinante ed inarrestabile.




lunedì 5 agosto 2013

Doc Rossese di Dolceacqua 2011 Testalonga Antonio Perrino





Quando rientro a casa la sera e mi attende sul tavolo un bel piatto fumante di minestrone di verdure fresche dell’orto il pensiero corre veloce - io di più – all’accordo con il vino. Mi dirigo nella cave, già persuaso della scelta. Le bottiglie giacciono lì da un po’ e aspettavo giusto un pretesto.

Avevo scritto qui dell’annata 2010 e questa è la prima che apro del millesimo successivo, che coincide con la cinquantesima vendemmia – mica bruscolini - di Testalonga. Prima, tuttavia, annuncio la mia clausola di esonero della responsabilità – quello che viene comunemente rubricato sotto la voce disclaimer. Questa bottiglia mi è stata donata da Nino. Me ne stavo andando dalla sua cantina - dopo congrua provvista - e mi racconta di alcune etichette stampate con caratteri diversi da quelli abituali; ergo gli domando di lasciarmene un paio giusto per “collezione”. Non c’è stato modo di saldare.

Stappo e verso. Il colore è il suo, mi garba definirlo rosso di fascino. Ruoto, annuso e, me lo aspettavo, trovo una evidente nota di riduzione. Non me ne curo – ti conosco e so che ti devi distendere, ma sbrigati ho fame e sete – e lascio passare una mezz’ora.
Ora sei Tu, con i tuoi nitidi frutti rossi – lampone, visciola e ribes – macchia mediterranea, ginepro, pepe bianco e poi mare, tantissimo mare.

L’assaggio avvalora, solo in parte, le sensazioni aromatiche giacchè sconta la sua estrema giovinezza. Non equivocate, illustro meglio. In bocca c’è ricchezza di frutto, il tocco erbaceo, la speziatura, molta mineralità marina, una buona acidità ma il tutto a livelli ancora compressi, soffusi. E’ pure persistente con tocco dolce in chiusura. Sono convinto che trascorso qualche anno il vino assumerà quel carattere che adesso la giovane età, con ragione, gli nega.
Due aspetti mi hanno sorpreso moltissimo: il formidabile governo del tenore alcolico – ben 14,5 gradi e non sentirli – ed in virtù di ciò, una beva smisurata. Su tutto, ad ogni modo, un sorso genuino e autentico, non propriamente e non solo un vino “normale” come ama definirlo Nino. Azzarderei, in prospettiva, annata 2011 migliore della precedente.

L’abbinamento con il minestrone ha colpito nel segno, il Rossese mi ha fatto vibrare anche se, confesso, l’atarassia l’ho raggiunta, a bottiglia letteralmente polverizzata, nel sentire cantare l’Alba nazionale alla tv. Fattene una ragione Nino!
E adesso scagliate le contumelie sul mio, dichiarato, conflitto di interessi.






venerdì 2 agosto 2013

Aoc Champagne Premier Cru Blanc de Blancs Brut s.a. Alain Bernard





Questa centenaria (dal 1912) maison de récoltant si trova a Dizy nel cuore del dipartimento della Marna. Ora sono Isabelle e Benoît ad occuparsi di questa bella realtà la cui produzione va dal brut al demi-sec, dal rosé ai millesimati. Questo è il loro Chardonnay in purezza, le cui uve provengono da una parcella del villaggio di Dizy chiamata "grains d'argent".

Visivamente è di bell’aspetto, di tonalità paglierina con qualche riflesso verdolino e con perlage di media finezza.
I primi profumi ricordano i fiori bianchi e la frutta gialla – spiccano ananas e pompelmo – seguiti a ruota da intensi ricordi di miele e tocchi vegetali.
All’assaggio la freschezza è l’elemento che colpisce prontamente. Abbastanza coerenti i ritorni aromatici, soprattutto per l’aspetto fruttato. Pur non essendo un mostro di complessità, il sorso ha il suo perché e porta in dote equilibrio e acidità nonostante un dosaggio più che percettibile. Il tutto si chiude – un po’ in fretta per la verità - su delicate note speziate e minerali.

Prezzo piccolo, franco cantina, per una bolla da aperò che, complice la calura, scende veloce e può preludere ad altre bevute più complesse e di diverso spessore gustativo.